Sull'esistenza dei blogger, casomai ci venissero dei dubbi

[Ndr: ho pubblicato questo post sul mio blog personale, poi ho valutato che ci potesse stare bene anche qui. Non lo faccio più. Forse]
Leggo il post di Gianluca Diegoli Perché i blogger non esistono, e mi trovo subito d’accordo. Sono passati pochi anni da quando dei blogger hanno iniziato ad essere corteggiati dalle aziende – ricordo tra le prime Barilla e Danone – e questa figura ha già al suo attivo un’automitobiografia di tutto rispetto. Che vive su una grande contraddizione, che cercherò di illustrare.

Il blogger è, nella sua accezione originaria, qualcuno che scrive per sé in uno spazio personale. Questo spazio rimane personale anche se usato a scopi professionali – lo stesso Gianluca è un esempio di questa affermazione: minimarketing non è una testata giornalistica, non vive di pubblicità, non è il mestiere di Gianluca, anche se i temi che tratta sono di carattere professionale. Un blog uno spazio personale, quindi, perché, tendenzialmente, non si riceve alcun compenso da quanto ci si scrive; non solo: le incursioni delle aziende sotto forma di richieste di recensioni, di diffusione di informazioni, di partecipazione ad eventi, hanno nel tempo creato una forte spaccatura tra chi accetta questa presenza tra le sue pagine di buon grado e anzi volentieri, e chi invece la considera un bieco tentativo di non pagarsi la pubblicità, sfruttando gli editori.
Quindi, punto primo: il blog è sempre uno spazio personale, le cui politiche di pubblicazione dei contenuti, a prescindere dalla fonte, sono del tutto lasciate al libero arbitrio del suo autore.

È probabile che un blogger che parla di qualcosa in particolare, però, voglia che il suo blog sia per lui uno strumento di promozione. Che vuol dire che attraverso il blog condivide le sue competenze e la sua professionalità, per mostrarle (oltre che a chi è interessato/appassionato della materia) a chi può avere interesse verso la persona del blogger medesimo. Una specie di CV o di portfolio vivente, insomma. Che cosa succede all’idea di “spazio personale” quando le cose stanno così? Niente. Di fatto, quello che fa un blogger è disintermediare l’informazione, che lo faccia per lui o per un brand: se mi sto informando su un prodotto, è assai probabile che prima di andare sul sito ufficiale io mi faccia un giro sui blog delle persone che ne hanno parlato, perché per definizione mi fido di più di un mio pari che di un’azienda. Attenzione, però: bisogna che i blog a cui mi rivolgo siano indipendenti, se no siamo da capo a 12.
Secondo punto: un blog ha un valore nella misura in cui disintermedia l’informazione azienda-consumatore (o, per estensione, head hunter-candidato). Ma per fare questo deve essere indipendente.

Quando le aziende hanno scoperto i blog questi assiomi hanno iniziato a scricchiolare sotto il peso di domande sui massimi sistemi: “Questa cosa mi interessa davvero, ma se faccio un post-marchetta la mia reputazione ne sarà intaccata?” che vuol dire “I miei lettori continueranno a fidarsi di me?”. Dalla mia esperienza, più che di blogger, di lettrice di blogger, mi viene da dire che è un falso problema. Se sei davvero interessato alla cosa di cui stai parlando i tuoi lettori capiranno che la passione che ci metti è sempre la stessa. Quindi vai tra e stai scialla. Altri, invece, intravedono in questo un’opportunità professionale tout court, per cui quello di blogger può diventare un mestiere in sé.

E qui si apre la grande contraddizione: quando il blogger vuole essere riconosciuto professionalmente (che non è il caso di chi si pone le domande di cui sopra), l’equilibrio tra i contenuti “spontanei” verso quello dei contenuti “provocati” si sposta sensibilmente in favore di questi ultimi (parlo a livello globale, non di singolo blog), e viene meno, secondo me, la funzione di disintermediazione. E non perché il singolo blog non sia più indipendente di per sé, ma perché abbiamo di fatto trasformato i blog (l’insieme dei blog) in un ulteriore strumento di intermediazione dell’informazione. Che così diventa un percorso del tipo: brand/azienda-agenzia-blogger-consumatore, dove il blogger e il consumatore non sono necessariamente la stessa cosa.
Da cui il terzo punto, la grande contraddizione: se i blog diventano strumento dell’azienda/brand, si introduce un livello ulteriore di intermediazione, e i blogger si trasformano in PR (aka BraccioArmatoDell’UfficioStampa).
Ma, IMHO, non sono più blogger.

Per rispondere a Gianluca. I blogger esistono, ma non sono quelli a cui pensano le aziende. Peccato, poteva essere bello.

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