Urge una nuova cultura di Branding

Il marketing è sempre più legato alla tecnologia: le strategie sono omnicanale e data-driven, servono competenze per gestire efficacemente le piattafome di marketing automation, si aprono nuovi universi come Marketing e Metaverso, Marketing e AI; e assistiamo al consueto fenomeno per cui la professionalità dei marketer si mette costantemente all’inseguimento di nuove tecnologie e piattaforme. E questo è sicuramente un aspetto importante del nostro lavoro, ma anche nell’era dell’AI la differenza la farà sempre… la qualità del prompt.

Cosa significa? Che nulla potrà mai sostituire le basi della cultura di brand, intesa come capacità di governare gli asset, gli elementi costitutivi di un brand, che resteranno centrati sulle persone e sulla capacità di guadagnare la loro fiducia. Di seguito, quindi, ho voluto sottolineare alcuni concetti centrali per la formazione dei futuri brand manager.


Investire nei brand garantisce migliori performance in tempi di crisi e una ripresa più rapida

Lo confermano i dati storici di tutte le recessioni economiche degli ultimi 100 anni: i brand sono la difesa migliore nelle crisi, a una forte brand equity corrisponde un maggiore shareholder value. Non faranno eccezione gli anni della pandemia, della guerra, dell’inflazione. La forza di un brand ha un impatto diretto e misurabile sulle performance finanziarie di un’azienda ma anche sulla predisposizione e sull’attitudine generale dei consumatori.

Fondamenta solide per esecuzioni rapide

Tra le #BigIdeas2023 c’è sicuramente la necessità di abbracciare una nuova cultura di brand che unisca la solidità delle fondamenta strategiche alle esecuzioni ibride abilitate dalla tecnologia. Solo garantendo basi solide a un brand – che si tratti di un Heritage brand, di un nuovo disruptor, o dell’offerta agile di una PMI – potremo agire, misurare e imparare velocemente nel mercato. E’ inutile gettarsi con entusiasmo nelle nuove tecnologie senza aver posto le basi di un brand sostenibile, con la sua formula della fiducia.

Da brand awareness a brand experience

La metà di circa 2000 intervistati da Gartner nel periodo tra giugno e luglio 2022 (tra dipendenti, consumatori e acquirenti B2B) ha dichiarato che oggi è meno importante scegliere un marchio noto rispetto a 3 anni fa. Da un lato quindi è a rischio la fedeltà ai “brand” intesi come nomi noti – dall’altro è sempre più importante la fiducia.

Sempre citando Gartner, oltre i 2/3 della fedeltà di un consumatore è determinata dalla Customer Experience, superando la semplice combinazione di brand name e prodotto.

La Brand Experience costruisce fiducia, e la fiducia determina la fedeltà.

Secondo dati PWC, i consumatori sono disposti a pagare fino al 16% in più per prodotti e servizi associati a un’esperienza d’acquisto positiva. Anche secondo BCG, una shopping experience fortemente personalizzata aumenta del 40% le probabilità che il cliente spenda di più, aggiungendo prodotti e servizi a quelli inizialmente d’interesse. Per personalizzare l’esperienza il cliente deve essere disposto a condividere dati (vinceranno i brand che costruiscono le loro suite di contenuti basati sui First Party data) e anche questa sarà una questione – indovinate un po’ – di fiducia: un vero e proprio circolo virtuoso.

Marketing sostenibile per innovatori digitali

La sostenibilità di un brand non è solo un concetto  “ambientale” ma riguarda complessivamente la sua salute economica e sociale. Un brand marketing sostenibile riesce a massimizzare  una formula molto semplice:

Volumi di vendita  x   prezzo  x    maggiore efficienza (minori costi)  x tempo  =  valore

Il valore del brand, oggi, non è altro che la fiducia che quel brand riesce a capitalizzare. Eppure nell’equazione sopra si dimentica facilmente la variabile TEMPO, determinante per creare un valore duraturo. Un click, una ricerca, una recensione, una visualizzazione, leggere il packaging, tutti questi momenti di connessione tra persone e brand sono importanti come e a volte più di una vendita. I marketers sono spesso distratti da ciò che si può misurare facilmente con le metriche delle vendite, e ignorano gli effetti più ampi e cumulati delle loro attività. Un piano di attivazione che discenda da una solida cultura interna di brand è invece la traduzione coerente e costante nel tempo della promessa di valore e dell’identità del brand, il che ci porta direttamente al punto successivo.

Un delicato mix di attività a breve e di brand building a lungo termine

Il brand marketing vive in una perenne tensione: da una parte le attività guidate delle performance di breve termine e dal ROI, ispirate ai benefici più razionali del prodotto e finalizzate a creare picchi di attenzione e conversioni presso target specifici (la punta dell’iceberg, per citare un famoso modello di branding); dall’altra le attività a più ampio respiro e di più profondo impatto emotivo, finalizzate alla costruzione della personalità del brand e della relazione con la sua audience (tutto ciò che va a sedimentarsi nella base dell’iceberg). Spesso viste come una dicotomia o un conflitto insanabile, in realtà i due tipi di attività dovrebbero essere complementari e combinarsi efficacemente tra loro. Tra gli esempi notevoli degli ultimi anni c’è AirBnB, che ha ribilanciato gli investimenti in search e perfomance marketing a favore di iniziative di brand building. Ne abbiamo visto esempi su Linkedin Italia, con lo storytelling di host italiani che hanno potuto valorizzare il loro patrimonio culturale, ma un esempio ancora più “iconico” per il positioning del brand è questo video:

Investire sulla cultura di brand significa stabilire con chiarezza gli asset del brand che le esecuzioni di breve termine potranno poi incorporare e rafforzare.

Infatti, alcuni dati molto interessanti (mostrati in questo video da Mark Ritson, che come sempre consiglio) dimostrano che le attività che costruiscono le fondamenta del brand hanno anche un effetto positivo sui risultati di breve termine, mentre il contrario accade molto più raramente. Ed ecco il punto: mentre per fare performance marketing e operazioni mirate occorre/è sufficiente (?) la padronanza di tool e tecnologie, per fare branding sono necessari altri tipi di competenze. E queste competenze diventeranno sempre più preziose.

Ecco cosa dicono gli ultimi dati disponibili nel report LinkedIn Economic Graph: per un ruolo di Creative Director negli USA, scalano o entrano in classifica skill fondamentali come branding & identity, creative strategy, corporate branding (da notare che social media marketing non compare più nelle top skills), mentre al posto del classico “logo design” troviamo ormai video production e fotografia. Sì, serve ripeterlo ancora: un brand non è un logo, ma una relazione. E per una relazione non basta l’awareness: una relazione con un brand nel 2023 si traduce in A) esperienza B) narrazione.

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fonte: https://linkedin.github.io/future-of-skills/

Consideriamo ora il paragone tra Italia e USA per quanto riguarda le skill della industry “Media and Communication” (le due slide di seguito): che cosa si nota? A parte la generalizzata perdita di posizioni delle voci “social media”, da noi sono in evidenza le abilità di scrittura e copywriting – su cui infatti è già in corso un’alzata di scudi “contro” l’impatto che l’AI avrà su queste professioni – mentre in USA al primo posto arriva un messaggio chiaro e forte, senza il quale nessun copywriter potrà mai fare un buon lavoro: il Branding.

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La verità scomoda? Troppa responsabilità viene ancora addossata ai copywriter nostrani, qualora non abbiano ricevuto dal brand un brief chiaro sulla sua strategia di branding e quindi di comunicazione. E’ il momento di investire sulle competenze di Branding.


Come collegarsi alle persone, cosa significare / rappresentare per loro, come incarnare i cambiamenti culturali nel passaggio da una “brand image” anni ’90 alla vera “brand salience” del terzo millennio: queste saranno le skill e le sfide del marketer – designer per il 2023 e oltre.

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