Gestione di identità, linguaggi e crisi lavorando con i social media

Giorni fa ho letto un commento molto acido su LinkedIN, relativamente a un riporto:

Un master per definire l’utilità  di social inutili? Un paradosso tutto italiano! Sarebbe molto meglio insegnare ai manager come si comunica in maniera tradizionale prima con carta e penna, poi parole e forse (se superano l’esame) anche in sessione personale a tu per tu con la gente…Forse a quel punto avrete creato un vero manager…Ma fino ad allora, state creando delle pecore a ripetizione che non fanno altro che riempirsi la bocca di neologismi ed inglesismi, senza alcun obiettivo personale, manageriale e umano.

Si tratta della rabbia di chi si sente lasciato indietro e non vuole accettare i cambiamenti e le nuove materie da studiare, o c’è dell’altro?
E’ un dato di fatto che i contenuti del nostro lavoro (non solo nella comunicazione) si siano evoluti molto più velocemente dei contenitori, e che parte irrinunciabile dei nuovi strumenti, ma direi proprio della vita intera di un manager come di un imprenditore, consulente o freelance, sia ormai la parte social.

Il commentatore ha ragione nel senso in cui ritiene che le doti di un buon manager debbano partire dalla base e restino in sostanza sempre quelle. Ma alcune skill professionali hanno acquistato i “superpoteri” in un mondo globale e iperconnesso.
Me ne rendo conto ogni giorno lavorando dai caffè o dai treni. Mentre prima le mie capacità  erano confinate e definite da una sola specifica cultura (quella dell’azienda per cui lavoravo), quelle stesse skills sono diventate ora molto più fluide, adattabili e interculturali. Cambiando completamente l’approccio al lavoro, non ci sono più skills strutturate in modo univoco, non ci sono processi uguali per tutti di valutazione della performance, ma infiniti scambi di diversi punti di vista.

Inoltre, grazie a o per colpa dei social la differenza tra tempo del lavoro e tempo privato, e in alcuni casi la differenza tra relazioni lavorative e personali, viene rimessa completamente in discussione.

Come si gestisce tutto questo? Tempo fa su un mio blog personale facevo alcune considerazioni che ritengo ancora attuali.

multiple-identites1. La gestione della propria identità  personale e professionale in Rete

  • Il racconto di me (o “discorso identitario”) che ho sviluppato negli ultimi 20 anni è ormai tale da non poter più distinguere tra identità  professionale e personale. Considero il lavoro un’espressione irrinunciabile di sè, una vera e propria missione, e questo mi mette in una condizione molto diversa da chi lo considera solo un modo per procurarsi dei mezzi di sostentamento e investe se stesso in altre cose. Non posso immaginare una narrazione di me in Rete (con termini alla moda, un personal branding o uno storytelling) che prescinda dal mio progetto professionale, quindi accetto tutto quello che ne consegue in termini di reputazione e percezione di me.
  • Il fatto che mi occupi di marketing (ma di un marketing che cerco di rendere speciale) non rende il mio lavoro meno degno, o svolto con minore etica professionale e coscienza civile, di chi fa il medico o il pompiere. Odio la demonizzazione del marketing da parte di intere fasce di popolazione e mi adopero per quanto possibile per smitizzarla. Mi sembra svilente, quando un lavoro è fatto bene e con passione, tenerlo fuori o ai margini delle proprie comunicazioni perché ha un carattere commerciale e “potrebbe essere visto male”.

2. La gestione delle relazioni

  • Esistono certamente, nei confronti delle persone con cui entro in contatto, dei rapporti dal contenuto prevalentemente professionale e altri a carattere più personale. Attraverso blog e social media, però, si crea più facilmente una zona ibrida, piena di sfumature in continua evoluzione e molto difficili da gestire.
    Con qualcuno ci si scrive aggiornandosi su vari aspetti della propria vita, con qualcun altro ci si vede regolarmente o saltuariamente, durante un viaggio di lavoro si è ospiti di una conoscenza di rete, si può persino andare in montagna o al mare insieme, si può fare un lungo viaggio in auto, e arrivare a condividere un racconto più confidenziale di sè. Tutte queste persone sono tendenzialmente anche destinatarie dei progetti che gestisco, o occasionali colleghi in quei progetti. Rispetto al mondo aziendale con le sue chiare gerarchie, è diventata una torre di Babele di linguaggi e commistioni di linguaggi. Talvolta si possono originare veri e propri corti circuiti emotivi.
  • Ora prendiamo un professionista, qualunque sia la sua posizione, che vuole coinvolgere molte persone in un’idea/iniziativa attraverso i suoi social network. (coinvolgere, non ingaggiare, vi prego: vi ripeterò sempre che la traduzione di engage è coinvolgere). Nel momento in cui raggiunge la sua rete di contatti, si pone il seguente problema: tenere distinta l’identità personale da quella professionale? E’ possibile farlo? Quando sì? Quando no?  Tendo a pensare che dipenda molto dagli strumenti che si usano: ad esempio, Facebook può essere fastidioso e invasivo se non si sta attenti, Twitter è molto diverso e i fattori personali sono molto più diluiti, LinkedIn è un circolo professionale con un suo galateo, e così via.

3. I linguaggi e il crisis management

In un lavoro “offline” i rapporti di stima professionale possono svilupparsi affondando successivamente le radici nelle qualità  umane delle persone. Può succedere quindi che da colleghi si diventi anche amici.
Ma, online, cosa succede quando da amici si diventa anche colleghi? Come si tratta “da collega” qualcuno con cui hai visitato mostre, ballato o bevuto, fatto battutacce? Capita ormai, anche spesso.

Esempio:
Scambio di email professionale con un membro del mio team, circa 10 anni fa:
Ciao Flavia, sono un po’ preoccupato per la riunione, possiamo vederci prima per allinearci?”
Stessa email, poche settimane fa: “Ansia -angoscia-ansia-angoscia. Avrò bisogno di molti grappini!”

Le persone che si incontrano e si frequentano nei social network adottano molto spesso tra di loro uno stile spaventosamente confidenziale, perché identico nelle comunicazioni personali e in quelle professionali.
E quindi, se anche per un progetto professionale lo stile è quello che si usa con gli amici, il rapporto che si crea attraverso questi scambi finisce per collocarsi in una strana e problematica terra di mezzo. (Devo dire che questo si verifica spesso tra noi donne, che tendiamo più facilmente a condividere emozioni in una conversazione scritta, ma questa è solo una parentesi molto opinabile.)

Insomma tutto bellissimo e coinvolgente quando le cose vanno bene. Ma cosa succederà  quando qualcosa andrà  storto? Perché qualcosa inevitabilmente può andar storto. Succede allora che un problema di lavoro diventi un problema personale. Succede magari che non potrò nè avrò voglia di uscire a cena con ciascuno e spiegargli un mio problema, cosa che magari anni fa con un capo o i colleghi a me più vicini avrei anche fatto. Non dispenso facilmente fragilità, soprattutto in queste  strane terre di mezzo. Quindi la gestione delle crisi può diventare un problema ancora più grande che in un “normale” e “formale” ambito lavorativo.

4. (Poche) conclusioni
Alla fine posso solo condividere alcune regole di condotta che mi sono data con l’esperienza:

– Parlare di cose di cui si ha competenza e promuovere tematiche e progetti che si considerano di valore
– Chiarire bene gli obiettivi e le meccaniche di qualunque progetto social, a tutta la comunità  di riferimento
– Regolare in modo cristallino e per iscrittto le collaborazioni di tipo professionale, dichiarando nell’accordo gli obiettivi e l’ambito di responsabilitÃ
– Rimanere umili e “low profile” senza creare aspettative eccessive riguardo al proprio ruolo e responsabilità.

– infine gli evergreen…

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