Ci sono troppi Social Media Strategist

Le grandi aziende, e tra esse le migliori scuole di marketing che siano mai esistite, oggi tirano la cinghia. Le più fortunate assumono di meno, le altre tagliano drasticamente il personale, soprattutto nel settore commerciale. Il marketing locale si riduce spesso a un adattamento/traduzione di idee, esecuzioni e “tool box” che arrivano precotti dai quartieri generali internazionali.
Le istituzioni (soprattutto le Università) che dovrebbero formare le nuove figure professionali del marketing riducono i corsi “tradizionali” a vantaggio di nuove specializzazioni più “fancy” e “cool”, per cavalcare mode e attirare più studenti.
La conversazione nel web e il proliferare di corsi di web marketing di ogni tipo, tenuti da figure di ogni tipo, incoraggiano l’assunto che per essere o apparire (tanto è lo stesso) un grande stratega basti saper navigare, frequentare i giri giusti, animare bene i propri Social, vantare stuoli di fan e followers, e magari aver fatto un corso che certifica tutto ciò.
Le agenzie di advertising si trovano a cercare un po’ a tentoni nel mercato del lavoro nuove figure di social media manager, spesso stentando a trovare chi scriva bene in italiano. Poi si accorgono di scontare una distanza generazionale tra le alte gerarchie di pubblicitari anni 80-90 e alcuni insofferenti giovani self-made-socialguru che niente sanno di politica e relazioni nel lavoro (il marketing non è solo la brillante intuizione, è soprattutto la sua realizzazione travagliata attraverso, sì, relazioni politiche e gerarchie. Storcete pure il naso di freelance ma fatevene una ragione, e smettetela una buona volta di irridere i capi e i clienti.).

Ecco, questa  può essere considerata una sintesi dei miei scambi di opinione con vari professionisti negli ultimi mesi. L’esortazione finale, si intende, è una mia opinione strettamente personale – e antipatica.

Ma dove sta finendo il marketing VERO? I Social non dovevano servire a farlo MEGLIO? Quel marketing fatto da 1% di inspiration e 99% di perspiration, cioè studio e approfondimento, fatica e pensiero? Non c’è più tempo per farlo. Bisogna contare i like e i fan e l’ora del giorno in cui sono online. Cogliere al volo l’ultima notizia che fa discutere per disegnarci un’infografica e postarla prima degli altri, sperando di finire tra i #win e non tra i #fail.

Intendiamoci, non che questa parte del lavoro non serva. Ma vorrei che ci fosse maggiore consapevolezza che fare una strategia, e chiamarsi strategist, è ben altro. Sì, sono all’antica. Nel mondo del personal branding è una mia scelta precisa, anche per ovvi motivi di anagrafe, purtroppo.image

Consideriamo solo alcuni punti:

1. L’eterno dilemma tra qualità e quantità
Legate alle logiche quantitative del vecchio caro broadcasting, le aziende e le agenzie incoraggiano pratiche volte all’acquisizione di numeri-contatti e non di valore-contributo alla crescita reciproca. Facebook lo sa bene e le fa pagare, facendo crollare i risultati fisiologici (significa che per 1000 fan, normalmente un mio post viene visto da 50) a vantaggio di quelli sponsorizzati (pago 40 euro e in due giorni mi hanno visto in 30mila). Ma chi sono e a cosa servono questi numeri? Non è proprio molto chiaro, ci dice questo video inquietante.  Resta il fatto che la strada più veloce è pagare per averli, i numeri, e del resto questo è ciò che da sempre le aziende fanno, e quindi tutti continuano a farlo.

2. Mancanza di focus
Le pratiche quantitative di cui sopra incoraggiano contenuti generalisti e privi di focus specifico. Tra riempire le persone di stimoli vari (ironia, domande, immagini, ricorrenze, e tutti i must che i corsi di Social media marketing ci insegnano) e profilarle, capire i loro insight, cogliere le loro emozioni, mettere a loro disposizione quello che veramente serve/interessa, è molto più facile e meno dispendiosa la prima strada.  Un’incredibile quantità di stimoli informativi e visivi viene così organizzata in un piano editoriale che diventa un palinsesto, non una conversazione. Il lavoro di studiare i contenuti secondo un obiettivo e una strategia (focus) al momento è svolto forse meglio dall’email marketing, che però è ancora una volta una tecnica unidirezionale. Le persone non rispondono alle email di marketing: le uniche azioni che contano sono aprire, cliccare, non aprire, o disiscriversi.

3. Mancanza di cultura di marketing
Se molte aziende non sanno nulla di cultura digitale, è anche vero che non molti cultori del digitale sanno di marketing (nell’accezione strategica più alta su cui mi sforzo di fare consapevolezza qui).  Che cos’è una strategia? A cosa serve? Come si struttura, come si elabora e infine come si articola in una presentazione comprensibile, tutto questo è frutto di almeno di una decina d’anni di esperienza nel marketing, NON nella comunicazione, e tanto meno nella produzione di contenuti per il Web. Fior di agenzie molto ben pagate possono continuare a presentare idee che sono fuori strategia. E ciò fa normalmente parte del loro lavoro, nel caso fortunato in cui il cliente gliel’abbia appunto fornita e spiegata, quella strategia. Il marketer deve saper elaborare una strategia, il comunicatore deve saperla tradurre in storie, il content producer e/o il social media manager traducono infine quella storia in conversazioni e networking, da cui un’azienda e un’agenzia intelligente ottengono altre storie significative.

Non c’è bisogno che tutti siano strategist per fare un buon lavoro.

(Continua, magari, ma solo se vi interessa)

5 commenti

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  1. […] dimostrarvi che, nonostante l’ultimo post sui social media strategist, nutriamo profonda stima e fiducia nella categoria dei social media manager, oggi ospitiamo una di […]

  2. […] Ormai quasi tutti di definiscono Social Media Strategist. Ma una strategia è cosa che inizia molto prima e molto più lontano, e le solide basi di marketing che occorrono non sono date a tutti. Meglio parlare di Social Media Manager, e farsi per bene le ossa.  […]

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